Attraverso la mitraglia
Recensioni a Gesti Convulsi:
Enzo di Brango in Le Monde diplomatique/Il Manifesto:
SOFFOCAMENTO GENERAZIONALE
di Valerio Evangelisti in Carmillaonline
La Lettrice rampante recensisce Gesti convulsi nel suo blog
4 marzo 2013
Letteratura e Gesti convulsi:
Freakout magazine intervista Alessandro Bresolin
Simone Zeni in Pizzadigitale
Erika di Giulio in Fuori le Mura, 25 marzo 2013:
Un master in enologia e un po’ di condoglianze. Denis veglia suo padre chiuso in soggiorno nella cassa da morto. Ci è tornato apposta dall’Argentina, lui che non è mai stato fermo un attimo e casa non è casa, e lavorare in azienda, per carità. Della rispettabilità se ne frega, gli piace sporcarsi le mani, è fatto strano. Lo dice la Gente. Con i fratelli un disastro. Ognuno diverso, ognuno lontano a modo suo. Mamma Claire ormai parla poco, il Belgio è lontano, il marito non c’è più. Si prepara senza volontà alla deportazione. Il figlio maggiore la prenderà con sé.
Christian adesso vive solo giù al fienile. Bocca chiusa e un processo durato sette anni, per lui il tempo non sembra essere mai passato. Ancora se ne va per boschi a caccia di funghetti e pietre magiche e di capelli e impicci in testa ce ne ha sempre tanti. Certe volte insieme alla puntina del giradischi che borbotta new wave gli vengono su pure un sacco di ricordi e quella memoria vinilica di scultore maledetto prende aria e malinconia. Gianni è un programmatore sull’orlo dell’esaurimento. In autolesionismo compulsivo da videomasturbazione e cibo cinese, è diventato l’amante nevrotico e incazzato della sua ex, ammogliata al padrone profumiere del centro, che nel frattempo è innamorato da dieci anni di uno che si chiama Ermanno.
Fede gestisce un locale fuori città. Fede il conformista, cattivi pensieri. Naso grosso e bucato, la notte è lunga. Suo padre, uomo di ferro, va a fare le ronde e addestra il nipote al mestiere delle armi, la mamma gli lava ancora i panni. L’unica donna della sua vita. Troppo vigliacco per meritarne un’altra. Ilario invece se la fa troppo col doping e poco con la moglie. Il ciclismo è come la musica, una questione di armonie. Pedala e pedala, smaltisce pene e ricatti, il cuore gli scoppia in petto e va a finire che una mattina la catena gli si spezza pure a lui. E quand’è così, coi soldi di papà ci fai poco.
Una band immaginaria diventa il pretesto narrativo per raccontare le gesta scomposte di un gruppo di ragazzi (non più tanto) che il futuro se l’era sognato diverso. I Gesti Convulsi negli anni ’80 per un po’ se l’erano comandata, non c’è che dire. Chitarra, basso, voce, batteria. Qualcuno ci aveva creduto forte nel miracolo del punk. Poi, una volta sopiti (e manco per niente) gli ardori giovanili, a Denis, Gianni, Christian, Fede e Ilario è toccato iniziare a fare a cazzotti con la vita vera. Cinque storie di disagio e ordinaria follia, a descrivere, nell’eterna incompiutezza, il fallimento di un’intera generazione. Brandelli pulsanti di vita, appesi nel mare dei sogni bucati e delle aspettative frustrate. Sullo sfondo, l’occhio piccolo piccolo del gigante padano, il distretto veneto-lombardo del nordest italico. Il Paese dei vicini che manco si guardano più in faccia, degli imprenditori che si lamentano, la pianura sconfinata che ci vai a prendere una boccata d’aria.
Alessandro Bresolin racconta la provincia meccanica e cattiva, che dà la caccia allo straniero e smania stravaccata nell’istinto primordiale di autoconservazione, che cambia faccia ma poi alla fine resta sempre la stessa, nell’ipocrisia delle tradizioni da difendere. La festa della transumanza che non è più come una volta, perché adesso c’è Mauro del Grande Fratello e i rituali arcaici d’alpeggio non se li fila più nessuno, pure se zio Sergio il formaggio lo fa ancora in un certo modo.
I gesti convulsi sono quelli di chi non riesce a starserne mai bene una volta per tutte da nessuna parte, di chi va e chi resta ugualmente irrisolto, in stato d’ansia perenne. Di chi spera nel grande salto, inciampa e cade, o resta così, su un piede solo. Tutti diversamente insoddisfatti nella bramosia di autenticità che li rende fratelli. A sgambettare furiosi sulle sabbie mobili della precarietà, nel fango degli istinti e dei sentimenti, a parlare sempre dei tempi andati. E Bresolin le va a (ri)trovare tutte le sue vecchie canaglie, ce le racconta bene, da vicino, nel covo disordinato delle ceramiche a valle, nel pallore degli interni soffocanti dell’anonimato famigliare o della squallida solitudine carnale di città, nell’isolamento periferico delle mille anime perse e agitate, alla ricerca di un non so che. Cattura e rimescola desideri e disagi esistenziali nella nebbia fitta delle frustrazioni e delle attese mancate, e la provincia si fa mondo intero, antico e moderno. Ieri e oggi. E il vino scorre, prepara le anime al disgelo, scioglie le parole, fa impazzire. Il ciclo naturale si è spezzato e nel terremoto delle passioni sempre difficili e impure, l’amore, adulterato, non vince mai.
Brumoso di legna a fondovalle e barbe di segatura, di vigne che non si reggono più in piedi, risotti psichedelici e cieli umidi di stelle, Gesti Convulsi è un romanzo nervoso, dal ritmo eccellente, pieno di calore. Lo spartito snello e impetuoso delle endorfine a go go e della volontà puttana. Il battito contratto e violento, la vena che schizza, sistole e diastole. Perché “la bellezza sarà convulsiva o non sarà”.
Erika Di Giulio
LA PRINCIPESSA DEL DESERTO DI MEZZO
Algeria: Il domatore di parole
Le monde diplomatique/Il Manifesto, maggio 2006
Marie-José Hoyet
Esilarante conte philosophique costruito a partire da alcuni motivi ricorrenti nella tradizione orale araba, La Principessa del deserto di mezzo è la prima opera narrativa pubblicata in Italia di Hamid Skif, giornalista e scrittore algerino nato a Orano nel 1951 che, dopo alcuni soggiorni in Francia, si è trasferito definitivamente in Germania.
Questo romanzo breve scritto nel 1997, ben tradotto dal francese da Alessandro Bresolin, si configura come una complessa parabola che – oltre al giovane cantastorie girovago, fulcro della narrazione – mette in scena una serie di personaggi che sfuggono presto al loro inventore, raccontando a loro volta storie infinite in prima persona: una bellissima principessa mangiatrice di uomini “che non vede l’ora di vendicare millenni di disgrazie”, un clown centenario che cavalca “un pony argentino vorace di tango”, un saggio dal collo di struzzo, un feroce tiranno seguito da coorti di fedeli invassati, e varie figure animali care alla favolistica popolare maghrebina. Nutrita di avventure e misfatti di ogni sorta, tipici di “questi nostri tempi incerti” e posta sotto il segno dell’affabulazione più delirante, la narrazione si avvale di una efficace struttura a scatole cinesi che, grazie a una sorta di mise en abyme permanente e a un ritmo indiavolato, immerge il lettore nei meandri della realtà contemporanea. Chiara e diretta la denuncia dell’integralismo musulmano, netta la presa di posizione sulla condizione femminile e l’instancabile rivendicazione della libertà d’espressione (l’autore, più volte minacciato, è sfuggito a vari attentati) che vira spesso in parodia. La lingua è insieme precisa e innovativa e il narratore, in guisa di “domatore di parole”, riflette sui percorsi della letteratura. E alla fine del romanzo, per bocca del giovane protagonista, tornato al villaggio da cui era partito, ironizza così sulla propria sventura: “Ora, sera dopo sera, bevo alla salute della letteratura in un bar per scrittori dell’aldilà”.
Le cose per cui mi batto
«LE COSE PER CUI MI BATTO», UN’ANTOLOGIA CURATA DA BRESOLIN
Silone: cultura e politica di un militante scomodo, socialista e cristiano
Francesco de Core
«La violenza non risolve mai nulla, solo complica e avvelena», annotava Ignazio Silone. «In condizioni favorevoli, i suoi effetti sono momentanei, presto o tardi distrutti da una violenza contraria».
Dette e scritte nel ’66, queste frasi conservano una inquietante carica di modernità. Era nelle corde dello scrittore di Pescina l’uso del dialogo sullo scivoloso terreno dell’etica e della politica. Ne è un esempio, peraltro poco noto, proprio il brano «I perseguitati persecutori», pubblicato quasi quarant’anni fa sulla Fiera letteraria e che ora Alessandro Bresolin ripropone in chiusura dell’antologia siloniana Le cose per cui mi batto (Edizioni Spartaco, pp. 223, euro 12).
Riesumato negli ultimi anni soprattutto per allungare ombre sinistre sulla sua biografia, in una contesa documentaria che si è consumata sempre più stancamente fino all’oblio, Silone mostra ancora di avere qualcosa da dire - come tutti quegli intellettuali liberi che, nel Novecento, mai si sono piegati all’impeto di questa o quella corrente. Lucido testimone degli orrori del totalitarismo d’ogni colore, lui che fu comunista in gioventù per scelta di campo e non per adesione ideologica, l’abruzzese fu nemico della ragion di Stato come del nichilismo. Al pari di Albert Camus, altra grande e spesso incompresa coscienza critica del secolo passato. Non è un caso che Bresolin, giovane studioso, abbia precedentemente curato una bellissima antologia di scritti dell’autore francese, edita da Eleuthera nel ’98.
Socialista libertario e federalista in tempi non sospetti, Silone previde la deriva partitocratica e burocratica dello Stato: spiegò tangentopoli decenni prima che il bubbone scoppiasse. Ma lui era il rinnegato, per i comunisti; e il sovversivo, per l’ortodossia cattolica: dunque fu socialista e cristiano assieme non per spirito di contraddizione, ma per intima, sofferta convinzione.
Del narratore dell’universo dei cafoni e delle tante Fontamara sparse per il mondo, qui abbiamo scarse tracce. E giustamente. Ben altro interessa a Bresolin, che è andato a selezionare - e con taglio preciso - testi poco noti del fondatore, con Nicola Chiaromonte, di «Tempo presente», rivista di cui solo oggi si comprende la reale portata. Il volume è diviso in due parti, semplicemente intitolate Cultura e Politica. Ma il confine è assai labile, avvezzo com’era Silone a essere politico in tutto e per tutto, anche quando denunciava l’immoralità della censura cinematografica. Come sottolinea Bresolin, «Silone credeva nella militanza ma rifiutava di piegarsi alle logiche di appartenenza e di interesse, continuando a considerare la politica un irrinunciabile luogo di confronto, per natura lacerante ma necessaria».
Forse è per questo che Silone, in fondo, non è stato mai tanto amato, e continua a non esserlo. È troppo scomodo e poco addomesticabile, lui che era fuori dalle conventicole letterarie, dai clan dei partiti. Era un disilluso ma capace di slanci e passioni: ne fa fede il bellissimo brano - ”Cronache della steppa” - dedicato alla figura di don Milani. Un ultimo, proprio come lui.
Eura e la maschera veneziana
recensione di Enzo di Brango.
Le Monde diplomatique/Il Manifesto, marzo 2018.